Il 18 maggio 1945, a poche settimane dalla definitiva sconfitta tedesca, monsignor Carlo Sonzini – che dal 27 aprile aveva ripreso a dirigere ufficialmente il suo giornale – iniziava la pubblicazione, a piccole puntate, di una Storia ebraica di casa San Giuseppe.
Si trattava di una storia assolutamente inedita per i più. Quanti, in quel terribile inverno 1943-44, pur frequentando l’Istituto di via Griffi, pur incontrandosi con il suo Fondatore e Direttore, ebbero sentore di quanto vi accadeva? Non soltanto le ospiti consuete della casa erano all’oscuro di tutto, ma anche le sorelle, almeno le più giovani, non erano al corrente di ciò che si svolgeva intorno a loro.

La necessità di segretezza
La necessità di tanto riserbo si era imposta al nostro fin dal primo momento. Più ristretto fosse stato il numero di persone a conoscenza dei fatti, più probabilità di salvezza vi sarebbe stata per tutti: per chi doveva salvare e per quelli che dovevano essere salvati. Una parola, un cenno, una indiscrezione potevano sfuggire a chiunque, specialmente a ragazze giovani, senza sospetti.
Vi era poi, tra le novizie, ed il particolare è curioso, una suorina che non sapeva dire bugie, neppure la più innocente. Si poteva quindi mettere la cara creatura a parte di certe cose? Confidarle che la signora Margherita era un’ebrea o che all’indomani ci sarebbe stato un certo trambusto in Casa per un falso rapimento?…
Ci si potrebbe anche chiedere se monsignor Sonzini, coinvolgendo in una lunga e drammatica avventura alla Primula rossa il suo istituto ed alcune sue figlie spirituali, non stesse rischiando troppo. La risposta, però, era già nello stesso impegno sonziniano affrontato e vissuto da tanti grandi santi: essere disponibili nel nome del Signore.
Un'autentica testimonianza cristiana
Che cosa poteva significare simile compito in un momento tanto cruento e pericoloso? Egli, riproponendosi una autentica testimonianza cristiana, poteva anche giungere ad una donazione totale, al martirio. Se infatti qualcosa fosse stato scoperto di quanto avveniva a Casa San Giuseppe, innanzitutto il direttore dell’istituto avrebbe dovuto pagare di persona; e a quei tempi, il “pagamento” in tal senso andava dal carcere alle torture, dall’invio in Germania senza biglietto di ritorno alla fucilazione… monsignor Sonzini, quindi, sapeva quale era il rischio per se stesso e per i suoi, ma sapeva affrontare i pericoli con la forza che solo Dio dà.
Quante volte avrebbe detto, nel corso di quei lunghissimi mesi pieni di pericoli, a Don Ernesto Pisoni (che presiedeva, con il nome di battaglia Cristoforo, il piccolo gruppo di universitari e i giovanissimi che si riunivano nella sua casa di Piazza Carducci per predisporre programmi di rapimenti, di fughe, di disturbo):
«Fate, fate voi, siete giovani.
Il Signore vi benedica. Io vado a pregare…».
E si ritirava nella propria camera; mentre intorno al tavolo da pranzo, che tanto poco serviva per eventuali pranzi, nascevano idee e si concertavano piani d’azione spesso arditissimi.

La Storia… ebraica di casa San Giuseppe inizia con una telefonata che il Nostro non riporta nella sua rievocazione dei diversi fatti. Egli fa precedere il racconto da un breve commento:
In principio fu una telefonata
La telefonata proveniva dal Comando tedesco, che si era insediato nella requisita Villa Dansi, tra via Sanvito Silvestro e via Dante; e che i partigiani avrebbero ben presto ribattezzata con il nome di “villa triste” per le orribili cose che vi accadevano. Fino a quel momento il telefono non aveva rappresentato per le Sorelle che un mezzo rapido, pratico, utilissimo di comunicazione. Da quell’istante, invece, avrebbe anche rappresentato il timore, la paura, l’angoscia, il pericolo. Comunque quel giorno di fine novembre 1943, Sorella Lina Manni rispondendo alla voce che le parlava al telefono era tranquilla, benché la richiesta non fosse di normale amministrazione.
Non era una novità che la Questura si rivolgesse a Casa San Giuseppe per l’invio provvisorio di giovani trovate qua e là e bisognose di immediata assistenza in attesa di decisioni da parte delle autorità, ma la richiesta di quel giorno era assai diversa. Si chiedeva cortesemente se l’Istituto poteva dare alloggio e vitto ai membri femminili di due famiglie, in quanto nelle Carceri locali non vi era più posto…
Obbediente alla parola d’ordine del Padre («Si deve accogliere tutti!»), sorella Lina rispondeva affermativamente; e poco dopo, accompagnate dalla Polizia, giungevano al n. 5 di via Griffi tre donne con tre o quattro bambini. Si trattava di una signora dall’aspetto matronale e di due giovani spose che rivelavano nei modi e nel vestire un’ottima posizione sociale.